Tempo fa facevo una rapida carrellata di programmi televisivi con il telecomando. Ad un certo punto mi fermo per qualche minuto ad ascoltare un dialogo tra un adulto e una bambina che potrebbe avere avuto una decina di anni. Entrambi gli attori sono italiani.
«E tu chi *c… sei?», chiede l’adulto alla bambina. «Mi chiamo Anna. E tu sei un grandissimo *s…!», risponde la bambina.
Che cosa c’è di strano in questo dialogo? So benissimo che l’uso di certe espressioni è ormai ufficialmente accettato e diffuso nei mezzi di comunicazione italiani. Sembra che la tendenza sia quella di avvicinarsi il più possibile alla lingua della gente “comune”. In ogni caso, fino a quella sera, pensavo che si trattasse di qualcosa riguardante il mondo degli adulti. Ora, invece, anche le bambine, tutte carine e beneducate, possono dire tranquillamente parolacce in TV.
La parolaccia pronunciata dalla bambina fu anche la mia prima espressione volgare detta in pubblico. Mi ricordo ancora quando e perché la dissi: in quarta ginnasio per consolare una mia compagna che aveva ricevuto un brutto voto. Erano gli inizi degli anni ’80.
«Il professore è stato proprio uno *s…!», dissi davanti ad altri compagni di scuola. Purtroppo, in quel momento, passò anche un’insegnante che mi sentì e mi sgridò severamente. E a casa ebbi la seconda razione di rimproveri.
Dire pubblicamente parolacce e bestemmie è da maleducati e questo riguarda sia gli adulti che i bambini. E poi non dimenticare che le parolacce si usano solo in certe situazioni speciali altrimenti perdono effetto», mi fu detto.
Non ho mai amato i divieti linguistici. Credo piuttosto che certe scelte comunicative debbano dipendere dal buon senso/gusto delle persone. Per questo resto sempre più perplesso quando ascolto certi dialoghi un po’ pesanti perfino in contesti considerati un tempo formali. La mia impressione è che ormai da alcuni anni siano stati abbattuti tutti i tabù linguistici che in qualche modo impedivano “moralmente” l’uso pubblico di certi termini. E questo fenomeno sembra riguardare tutti gli strati sociali indipendentemente dal grado di istruzione delle persone. Altrimenti non mi spiegherei questa frase che mi è stata detta, con un sorriso complice, da un professore universitario, conosciuto da pochissimi minuti, davanti ad altri docenti tra i quali c’erano diverse donne:
«Per colpa di una testa di *c… e di uno *s… che rompono i *c… il progetto di ricerca sta andando a *p…». E dirlo in altre parole non si poteva? Che cosa pensava di ottenere il professore usando questo linguaggio? Maggiore confidenza dal sottoscritto che non c’entra nulla con il progetto? Perché il linguaggio “comune” delle persone è diventato sinonimo anche di “turpiloquio volgare”? E io che cosa mi sono perso in tutti questi anni di vita all’estero?
Evidentemente con l’avanzare dell’età mi rendo conto di essere rimasto un po’ indietro riguardo certe strategie comunicative in italiano. Quanti anni sono passati dalla mia adolescenza, quando l’uso del linguaggio triviale significava sostanzialmente provocazione verso il mondo degli adulti! Adulti e adolescenti comunicano oggi sostanzialmente allo stesso modo… e io mi scopro a condividere le stesse parole di mia nonna che mi diceva: «Non fare il villano!».
*Lascio ai lettori il compito di colmare la lacuna.


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