Nei dizionari etimologici della lingua italiana si può osservare che la parola “casa” in latino significa “capanna”, mentre il termine “domus” indica la “casa in muratura”. Nel corso dei secoli il significato di quest’ultimo termine si è evoluto in “domus dei” e quindi “Duomo”. Le derivazioni di “casa” (“casale”, “casino”, ecc.) e “domus” (“domestico”, “domicilio”, ecc.) sono numerose e molto usate.
Nelle lingue germaniche come il tedesco e l’inglese è presente binomio “Haus/house”, con cui si intende l’edificio “casa”, e “Heim/home”, che invece indica il “luogo dove ci si sente a casa”. In tedesco “nostalgia” si dice “Heimweh”, cioè il “dolore che si prova a essere lontani da casa” e “Heimat”, che in italiano viene tradotto genericamente con “patria”, ha un’accezione affettiva molto profonda. È il luogo dove ci si sente bene, ma non è necessariamente quello dove una persona è nata. Si tratta di una casa più spirituale che reale. Sul concetto di “casa”, in tutte le sue sfumature, la letteratura è immensa. Nei racconti degli emigraanti, per esempio, si parla spesso delle case della propria infanzia oppure di quelle costruite con grandi sacrifici nel Paese di origine o in quello di accoglienza. Secondo me esiste una contraddizione di fondo tra “casa” ed “emigrazione”. La casa, infatti, è fisicamente “immobile”. L’emigrante, invece, si sposta. Quando la gente va via molti immobili rimangono vuoti, spesso per sempre.
Recentemente sono stato nella Spagna settentrionale, tra i Paesi Baschi, la Cantabria e le Asturie. Là ho osservato le tristi conseguenze dell’emigrazione con case, sparse per la campagna deserta, abbandonate a sé stesse. Anche in certe zone dell’Italia, compresa la provincia di Belluno, è così. Ogni casa racchiude la storia di persone che hanno investito le proprie energie in un progetto concepito per sé e per i propri discendenti. E ogni casa abbandonata rappresenta, a mio parere, il fallimento di un proposito di vita. Per questo motivo, quando mi trovo di fronte a edifici malridotti, magari circondati da giardini pieni di sterpaglie, mi chiedo che senso abbia tutta la bellissima retorica collegata con il senso delle radici ridotte a immobili che nessuno vuole più. Si dice che il possesso di una casa, anche di un appartamento, sia un investimento sicuro per il futuro. Mal che vada, infatti, si può sempre vendere l’immobile e incassare qualche soldo. Molti ragionano ancora così e gli agenti immobiliari si muovono fiutando affari di ogni tipo. Le case diventano così dei semplici oggetti da vendere, senza più identità e con prezzi fissati dal cosiddetto libero mercato dove le speculazioni dei furbetti sono inevitabili. Ma che cosa succede quando una casa non viene venduta? Si potrebbe smontarla pezzo per pezzo e rimontarla in un posto migliore dove è più apprezzata anche dal punto di vista economico? Magari! Demolirla? Che peccato! Mandarla in malora perché i costi per mantenerla sono onerosi? Pazzo! Insistere a venderla fino allo sfinimento? Ottimista! Sperare in un benefattore disinteressato? Illuso! Regalarla? Scemo!
Non lo so… ognuno ha una propria soluzione. Io però mi chiedo soprattutto una cosa: che senso ha dare tanta importanza affettiva a qualcosa che non si può muovere, pur sapendo che, in fin dei conti, la nostra presenza su questo mondo è solo transitoria? Perché ci ostiniamo a pretendere che i nostri discendenti si facciano carico di progetti immobiliari che si possono trasformare in vere e proprie zavorre economiche ed emotive?
Per me da anni “Heimat”, la mia casa, non è più un luogo fisico, ma uno stato mentale favorito dalle persone che mi fanno stare bene. E non ho mai sentito il bisogno di possedere una casa tutta mia, ma mi è sufficiente vivere in una bella “capanna” con il tetto spiovente, in affitto, che posso lasciare senza problemi in qualsiasi momento quando sarà il momento. È tutto molto più semplice così.
Raffaele De Rosa


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