In alcuni manuali di italiano per tedescofoni a un certo punto, diciamo a livello B2/C1, c’è un piccolo capitolo dedicato all’educazione civica italiana nel quale vengono spiegate, a grandi linee, le principali istituzioni statali con riferimenti anche alla nostra Costituzione.
E la reazione dei miei studenti di fronte a certe frasi come “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” (articolo 1) è sempre la stessa: stupore. Naturalmente io cerco di spiegare le ragioni etiche di una frase del genere e il contesto storico in cui la nostra Costituzione è stata scritta.
La Costituzione italiana prevede anche il “diritto allo sciopero” (articolo 40) e qui la reazione dei miei studenti è completamente diversa: ironia, quasi sarcasmo. “In Svizzera non c’è il diritto di sciopero, ma si cerca sempre di trovare una soluzione pragmatica ai nostri problemi”, dicono.
Molti dei miei studenti hanno avuto esperienze particolari, anche divertenti, con gli scioperi italiani. C’è chi ha dovuto dormire in stazione, alcuni si sono trovati arenati in un aeroporto e altri ancora hanno partecipato, senza saperlo, a cortei convinti di seguire una massa di turisti diretti a vedere qualche monumento famoso. Hanno capito che la conoscenza del significato di “sciopero” è fondamentale per capire la lingua e cultura italiana.
La parola “sciopero” deriva dal latino “ex-operare” che significa letteralmente “porsi al di fuori del lavoro”. Il termine corrispettivo tedesco “streik” deriva invece dall’inglese “strike”, usato a sua volta nell’espressione “to strike the sails” cioè “abbassare le vele”, quindi “smettere di navigare” e di conseguenza “di lavorare”. La Gran Bretagna un tempo era una potenza navale e la marineria impiegava moltissime persone che, all’occasione, erano in grado di protestare con efficacia per ottenere alcuni diritti.
Quando ero bambino lo sciopero significava sostanzialmente non andare a scuola. E doveva bastarmi questo. Almeno una volta al mese ce n’era uno organizzato da varie categorie di lavoratori. I telegiornali e i giornali-radio erano risicati e le notizie ridotte all’osso. Il redattore di turno leggeva alla fine un comunicato in cui veniva spiegato il motivo dello sciopero. Avevo anche imparato a memoria le sigle dei sindacati elencati come se fossero formazioni calcistiche. Non ho mai capito se quegli scioperi raggiungessero alla fine i loro scopi oppure no. Questo non veniva mai detto. Con l’adolescenza, negli anni Ottanta, ho capito che gli scioperi potevano essere fatti anche per alti ideali come la pace nel mondo e l’uguaglianza tra i popoli. Chi li organizzava, comunque, era sempre ideologicamente selettivo nella scelta dei temi su cui manifestare e scioperare. Da noi giovani ci si aspettava il necessario impegno politico e attivismo sociale. Per me, comunque, quel tipo di approccio era troppo astratto e certi discorsi inconcludenti, fatti di grandi paroloni carichi di retorica e slogan senza contenuto, li ho sempre trovati noiosi. Se dovessi definirmi come ero in quegli anni userei gli aggettivi “diffidente e scettico”. Forse anche “asociale”. E non credo di essere cambiato molto nel corso degli anni. Non amo le parole “massa” e “popolo”, credo invece molto nella “responsabilità individuale” che ognuno ha nei confronti degli altri nella vita quotidiana.
«Ma che cosa succede alla fine di uno sciopero? La gente crede davvero che in questo modo si possano veramente fermare le guerre e sconfiggere le carestie a migliaia di chilometri di distanza?», mi chiese un giorno uno studente.
Sì, molti ci credono per ingenuo, ma lo stesso ammirabile, idealismo oppure per semplici convinzioni ideologiche anti-qualcosa o anti-qualcuno.
Certo sarebbe bellissimo che uno sciopero servisse a interrompere i massacri e a portare la pace nel mondo. Ma non è così, purtroppo. Io almeno non ci ho mai creduto.
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