Recentemente sono stato in Francia dove ho avuto la possibilità, tra le altre cose, di vedere due partite della nazionale italiana di rugby impegnata nei Campionati del Mondo del 2023. Le città dell’Esagono, da Nord e Sud, erano piene di appassionati della palla ovale che, tra uno stadio e l’altro, ne approfittavano per fare anche i turisti. La maggioranza di loro era di lingua inglese, ma c’era anche una notevole rappresentanza di lingua spagnola composta da argentini, cileni e uruguaiani (molti dei quali di origine italiana). A completare il quadro linguistico di questo evento sportivo bisogna menzionare l’afrikaans dei tifosi sudafricani e namibiani, il figiano, il georgiano, il giapponese, il portoghese, quello parlato a Coimbra, e il tongano.
L’italiano, nel contesto rugbistico dei mondiali francesi, era una lingua nettamente minoritaria, ma tra il pubblico tricolore presente negli stadi ho sentito parlare un po’ tutti i nostri dialetti con una prevalenza veneta. La popolarità della palla ovale nella nostra regione è nota.
Girando per le città francesi ho potuto notare la presenza di tantissimi ex-rugbisti, più o meno sovrappeso, e tanta voglia di divertirsi pacificamente un po’ ovunque. Nello stesso tempo mi è sembrato che lo spirito di accoglienza francese fosse molto alto anche dal punto di vista linguistico.
Uno degli stereotipi più diffusi sui francesi è quello collegato con il loro presunto complesso di superiorità nei confronti dei non francofoni. E così, chi non parla come loro, non viene preso in considerazione nemmeno per un minimo dialogo.
E non parliamo, poi, della presunta incapacità dei francesi di parlare le lingue straniere, in particolare l’inglese. In questo senso viene citata sempre come esempio, positivo o negativo a seconda dei punti di vista, la volontà politica del potere centrale parigino di eliminare le parole straniere (e dialettali) dal vocabolario francese in nome di un purismo linguistico più teorico che pratico.
Non si deve nemmeno dimenticare, infine, che il francese, da diversi decenni, ha perso significato nel panorama delle lingue straniere imparate a scuola a scapito dell’inglese. Nella Svizzera tedesca il francese è una lingua veramente detestata, forse perché è una materia obbligatoria.
Per quanto mi riguarda non ho mai studiato il francese a scuola, ma per fortuna non l’ho mai detestato, anzi… ho sempre apprezzato le donne che mi parlano come Catherine Deneuve o Sophie Marceau. Ecco, forse per questo motivo non ho mai avuto particolari problemi a espormi nella lingua di Voltaire. Partendo dalla comune base latina, mi basta trasformare l’italiano in una specie di patois (impasto) simil francese e il gioco è fatto. Per giustificare la mia pronuncia non propriamente dell’Île-de-France, dico che vengo dalla Corsica come Napoleone.
Il risultato è che i francesi con cui ho avuto a che fare in quei giorni hanno apprezzato molto i miei sforzi di farmi capire nella loro lingua. Anche quelli (molti giovani!) che volevano parlarmi in inglese, usando parole francesi pronunciate in modo strano, alla fine si sono arresi con un sorriso di fronte alla mia testardaggine nel voler parlare la lingua del luogo.
Alla fine, ho avuto ancora una volta la conferma di una tesi apparentemente ovvia quando si decide di confrontarsi con una lingua che non è la propria: per comunicare in modo positivo ci vuole la volontà dello straniero di farsi capire dall’interlocutore autoctono, ma nello stesso tempo è necessario che l’autoctono sia disponibile ad ascoltare l’interlocutore straniero mettendosi nei suoi panni ed evitando di giudicarlo per gli inevitabili errori di ogni tipo.
Tutto questo si chiama empatia e nei miei giorni in Francia, tra palloni ovali, chambres d’hôtes, baguettes, pastis e bières ne ho trovata veramente molta.
Raffaele De Rosa


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